Due eccellenti artiste, esanatogliesi… a metà

 

Proseguiamo ad arricchire quella sorta di Pantheon locale che via via stiamo cercando di costruire recuperando storie che ci appartengono, ricostruendo legami con il nostro paese.

Legami di vario tipo, anche occasionali, perché tanti sono i modi di incidere su una realtà minima e perciò sensibile quale è la nostra, come tanti sono i motivi per poter considerare importanti alcune presenze, alcuni transiti, a volte semplici contatti.

Può essere d’aiuto per rammentare, a chi ostentando presunzione ne mostra bisogno, che questo paese non nasce e non morirà con lui, e che può anzi vantare presenze di cui essere orgogliosi o per lo meno confortati.

Ma lo faccio anche a sostegno di quanti, me per primo, hanno il ricorrente bisogno di conferma sulla giustezza di una scelta mai facile, operata per inerzia o per deliberata volontà (confini sempre labili): quella di consumare la propria esistenza in queste lande, scelte per caso o con consapevolezza o toccate in sorte come ogni terra nativa. 

In questa ricerca che appassiona, si ha a che fare per lo più con vite sconosciute, esistenze minime, labili presenze svaporate che hanno lasciato appena tracce essenziali, poco più di un nome, qualche data, un mestiere, una casa, rari brandelli di vita vissuta che a setacciarli non ci raccatti su manco un raccontino breve, forse un aneddoto, insegnamenti zero, nonostante ogni vita possa essere, con un po’ di benevolente arbitrio e affinata maestria, un epifanico romanzo.     Capitano a volte però anche le storie, le vite distinte, persone poste in rilievo dalle tracce che hanno lasciato e che la ‘storia’, almeno la loro, la fanno, l’hanno fatta e, soprattutto, hanno il privilegio d’averla avuta conservata.  Viene da sé essere trascinati a seguirle queste tracce, che siano rimaste tra noi o da qui partite e sparpagliate per il mondo e poi dal mondo scientemente o casualmente ricondotte qui, sempre a Esanatoglia, di cui amiamo occuparci.

Il legame di cui parlerò è in apparenza vago, ignorato dai più e disperso nel tempo; ma è legato all’origine, alle radici, quindi importante e per di più reso intenso da una presenza in un particolarissimo periodo storico. 

 

Da Esanatoglia a… Napoli

Seguiremo una storia che inizia da Esanatoglia e ci conduce a Napoli; un percorso che parte “da li viculi de le Spiazze“, all’epoca specchio della densità del paese, brulicante di vita.  Dal quartiere più basso entro le mura, sorto su quel canale che, parallelo al corso del fiume, rendeva anticamente il convento di S.Maria Maddalena una “insula“, colmato da suoni e rumori di osterie e botteghe, orti e cantine e dal vocìo dei tanti e incontrollabili “munelli che jiòca”, le bizze della storia ci trasportano al Rione Sanità, uno dei simboli della città partenopea, del suo clamore, della sua esuberanza; un condensato di napoletanità al confronto della quale quella “pipinara spiazzarola” tipica di una improbabile e forse mai esistita ‘esanatogliesità’, sarebbe stata percepita come poco più che un brusìo. 

Il percorso di questo trasferimento di scena si dipana attraverso la storia di due personaggi di rilievo del mondo musicale e artistico, e non solo di quello napoletano, degli ultimi sessant’anni: Angela Pagano e Marina Pagano, sorelle, e della loro madre Rosa

Sono legate alla famiglia esanatogliese dei Dialuce e per parlare di loro proprio da questa famiglia partiamo.

 

 

La famiglia DIALUCE

Un casato che non ha radici storiche molto antiche nel nostro paese: il primo Dialuce compare a Esanatoglia a metà dell’Ottocento.

Si chiama Eugenio figlio di Giacomo; non sappiamo da dove proviene, ma sappiamo che è nato nel 1826 e conosciamo il suo lavoro: è calzolaio.  Pensiamo che arrivi nel nostro paese non perché attratto dalle opportunità lavorative che, per la sua arte, erano piuttosto sature (c’erano già sette o otto vottéghe de carzolari), ma mosso da motivi di cuore.   E’ infatti santanatogliese la donna che sposa: Giuseppa Ceolotti. La coppia si insedia in una piccola e buia casetta “da lu Massacciu” (Via Massaccio), dove al piano terra Eugenio s’accomoda alla meglio per esercitare il suo lavoro.

La loro prima figlia femmina, Severina (1853-1929), sposerà un Cilla.  La convenzione che favorisce la discendenza patrilinea cancella, nel suo caso, il cognome Dialuce dai documenti ufficiali e dal ricordo.  Ma per i cosiddetti vincoli di sangue (per quanto sia di scienza o di passione, fate voi) questo ramo, attraverso la figlia della coppia, Nicola, proseguirà poi negli eredi di Zampini Vincenzo, poi di Domizio e via via di altri ancora, fino ad oggi.

Per quanto riguarda l’altra figlia, Lucia (1850-1916), i vincoli di discendenza si fermeranno con lei: sposerà tal Giovanni Bottaccio e insieme non avranno figli.

Il nome dei Dialuce, insieme con la nostra storia, prosegue invece con il figlio maschio, Basilio, nato nel 1868: segue le orme del padre e fa il lavorante in una delle tante botteghe del paese. 

Basilio Dialuce nel 1902 sposa Angela Bartocci.  Angela ha 39 anni ed è vedova da oltre dieci anni; nel giro di un triennio, dal 1891 al 1893, oltre al primo marito aveva perso anche i suoi unici due figli.  Basilio ha 34 anni e si insedia nella casa della consorte in Via Spiazze 11 (oggi Via Cataldo Onesta) trasformando la precedente attività di fabbro ferraio che vi svolgeva il coniuge defunto, in una bottega di calzolaio.  Si mette in proprio.

La casa di Angela Bartocci e Basilio Dialuce in Via Spiazze (oggi Via Cataldo Onesta)

Dall’unione della coppia nascono Zeno (1903), Rosa (1904) e Maria (1906).

Una vita modesta ma decorosa nel quadro generale di quei tempi difficili per tanti.  Una famiglia felice per quanto era allora concesso.  Ma agli inizi del 1913 Angela si ammala e nel volgere di pochi mesi, ai primi di maggio muore.  Rimasto solo con tre figli ancora piccoli, Basilio si trova quasi costretto a rimediare alla sua improvvisa solitudine convolando a nozze nel giro di pochi mesi con tale Caterina Emigeri, fabrianese, avvezza di suo, come figlia di genitori ignoti, alle asprezze e alle avversità della vita.  Il destino si accanisce sulla famiglia.  Neanche tre anni e nel  settembre del 1916 Basilio muore ad appena 48 anni. L’intero carico della famiglia resta sulle spalle di Caterina che sembra reggere finché non appare il flagello epidemico della “Spagnola”.  Nel 1918, nel locale Ricovero di Mendicità (oggi Casa di Riposo per anziani), che per l’occasione fungeva da reparto infettivo (“lu lazzarittu” era al piano alto), “rapite da fatal morbo” a distanza di pochi mesi una dall’altra, muoiono sia Caterina che Maria Dialuce, dodici anni appena.

Dei due orfani rimasti soli, Zeno e Rosa, 15 anni lui e 14 lei, è quindi chiamato ad occuparsene il giudice tutelare che dispone per il primo l’affidamento ad alcuni parenti della madre, mentre per Rosa viene disposto l’invio in un collegio a Roma.  

 

Zeno Dialuce

Zeno, rimasto a Esanatoglia, sposa nel 1931 Maria Lacchè (del ramo de “quilli de lu ruscittu” o ancora meglio “de li ruscitti”).  Nello stesso anno nasce la loro unica figlia, Angela (1931-2022) che molti di noi esanatogliesi hanno conosciuto apprezzandone il garbo e la dolcezza.

 

Angela Dialuce

Con lei si chiude il breve arco temporale che ha visto il cognome Dialuce nell’anagrafe esanatogliese: meno di due secoli.

 

Rosa Dialuce

Le vicende di Rosa, o Rosetta come spesso veniva chiamata, l’altra orfana di Basilio, ci conducono invece all’oggetto di questo racconto.  Un racconto straordinario, di prima mano. 

Una figlia di Rosa, Angela, ha di recente dato alle stampe un libro, il suo “Diario ritrovato“, dove racconta la sua storia di artista, inserendovi pagine che riguardano la sua famiglia di origine e quindi anche il nostro paese. 

 

 

Rosetta e il mandolinista

Innanzitutto Angela ci racconta di come Rosetta, orfanella esanatogliese, conobbe un mandolinista napoletano.

Dopo la morte della matrigna e della loro sorella, Zeno e Rosa ….

“furono affidati a un tutore assegnato dal tribunale dei minori, lei fu mandata a Roma presso un buon collegio. Anni dopo mio padre era Roma con la compagnia di Raffaele Viviani.  Un mattino passeggiando svogliato – quello che conta per gli artisti è la sera, lo spettacolo, durante il giorno si annoiano – vide un gruppo di giovanissime signorine con la divisa del collegio. Ne notò una piccolina con i capelli nerissimi, gli occhi verdi e il naso all’insù: una leccornia! Si guardarono e il giorno dopo ritornò nello stesso posto, alla stessa ora. Si parlarono,  il giorno successivo andarono via insieme: lei, maggiorenne e senza un soldo, perché nel frattempo il tutore si era mangiato tutto; lui, artista sognatore virtuoso del mandolino, il più bravo. Fecero le tournée insieme finché mia madre non rimase incinta; allora, restò a casa, a Napoli, ad aspettarlo.  Quegli anni per lei furono esaltanti: una ragazza di provincia, di campagna, fra artisti strepitosi, musicisti; Raffaele Viviani che le chiede di stirare la tovaglia del tavolo di scena, quando si recita ‘Lo sposalizio’. Mia madre qualche volta andava ad aspettare mio padre al termine dello spettacolo, qualche volta faceva la spesa e cucinava anche per gli artisti che abitavano nella pensione: la sera, tutti insieme. Una bella vita piena di viaggi, città diverse che lei vedeva per la prima volta; affetto, amicizia, sentimento.

L’uomo del mandolino, che rapì Rosetta, era il musicista e cantante napoletano Guglielmo Pagano.

Guglielmo offrì si affetto, amicizia, sentimento, una vita bella, ma anche difficile, con tanti problemi destinati ad aumentare via via col crescere della famiglia e con la crisi lavorativa del capo famiglia coincisa con il progressivo declino della compagnia teatrale del grande Raffaele Viviani.

Il teatro di Viviani, basava prevalentemente la sua forza espressiva sulla rappresentazione realistica della miseria, e pertanto non risultava del tutto funzionale alla propaganda di regime cozzando con l’immagine che il fascismo amava dare di sé.  Progressivamente ebbe a trovare sempre meno spazio sulle scene e la presenza nella programmazione delle varie sale scemerà progressivamente.

Con lo scoppio della guerra è crisi generale, colpo di grazia per i settori deboli, figuriamoci il teatro di Viviani.      

Napoli fu la città italiana più martoriata dai bombardamenti anglo-americani.  In particolare a partire dall’inizio del 1943 e per diversi mesi, le incursioni dal cielo divennero quasi giornaliere.

Alla vita già grama in quell’ambiente reso ormai invivibile e pericoloso, Rosetta non trova altro da opporre che cercare scampo in un luogo sicuro come poteva essere Esanatoglia, anzi, come Esanatoglia doveva, a risarcimento di ciò che le aveva negato;  quasi s’aspettasse dal suo paese d’origine la protezione di quel grembo materno che nella sua infelice infanzia le era mancato.

 

Il ritorno di Rosa ‘sfollata’ a Esanatoglia

Questo ritorno forzato ma salvifico di Rosetta Dialuce in Pagano, con tutta la sua famiglia al seguito, ce lo racconta ancora Angela. 

  “ È notte, suona l’allarme: arriveranno le bombe, dobbiamo scappare. Sono mezza vestita; le scarpe a tiro di piedi, sulla sedia accanto al letto il vestito e il cappotto. Mio padre prende la più piccola di noi in braccio, un’altra dà la mano a mia madre e io a mia sorella ‘grande’… ha 10 anni; chiude la fila mio fratello, che è ‘grandissimo’: ha 15 anni. Ci avviamo come sempre al rifugio tra le imprecazioni di mio padre. Sono terrorizzata, il Rione Sanità è buio; il rifugio è vicino, ci resteremo per il resto della notte.

 Non posso fare a meno di tremare, tutte le notti è così, non ne posso più! Mia madre prende una decisione e ne parla con mio padre che annuisce. Andiamo nelle Marche, a Esanatoglia, il paese di mia madre, dove vive suo fratello con la moglie e una figlia. Questo zio si chiama Zeno… in una famiglia così napoletana, uno che si chiama Zeno? Un nome strano e bellissimo… ed è anche marchigiano. Non sapevo di avere uno zio, una zia e una cugina marchigiani. Anche mia madre è marchigiana, per metà lo sono anch’io. Mi piace!

 

 

Siamo in viaggio per Esanatoglia, stiamo andando nelle Marche. Stiamo fuggendo dalle bombe e dai tedeschi, in un camion insieme ad altra gente che scappa come noi. È un viaggio lungo, faticoso, seduti per terra; fa caldo, di notte fa freddo. Mio padre ha trovato questo camion perché ha saputo da un suo amico che il conducente deve portare delle persone vicino Macerata; lì, poi, avremo bisogno di un altro mezzo che ci porti a Esanatoglia. Dopo giorni di viaggio, durante il quale abbiamo mangiato poco, bevuto acqua dalle fontane trovate per strada e qualche contadino ci ha dato un po’ di pane e formaggio, facciamo a piedi un pezzo di strada di campagna, rubando frutta e rischiando molto. Siamo mio padre col suo mandolino, mia madre e noi quattro: la più piccola ha un anno, il più grande quindici. Arriviamo in una casa dove ci danno da mangiare e ci indicano un uomo che ci può portare in un posto che si chiama Matelica, molto vicino a Esanatoglia. Una volta giunti a Matelica, non c’è alcun mezzo per raggiungere la nostra meta. L’uomo del camion ci mostra una strada, alla fine della quale si trova la destinazione finale: sono 6 chilometri. Mio padre non trova nessuno che ci accompagni; ritorna dopo qualche ora sconsolato e stanco.  Siamo tutti stanchi, dobbiamo andare a piedi.  Mi metto a piangere, mia madre mi rimprovera aspramente: “Non piangere, sei grande!… I grandi non piangono”… ho 6 anni.

Iniziamo a vedere delle case, una piazza… mia madre incomincia a correre, noi dietro… lei urla: “Zenooo!… Mariaaa!”. Si affacciano delle persone che gridano: “Rosettaaa!”.

Siamo a Esanatoglia. Per me è come l’America, no: più grande, più bella, anche se io l’America non l’ho mai vista e chissà se mai la vedrò.

 

Scorcio di Via Roma, dall’alto de “lu Torione de Sand’Andrea”, nell’immediato dopoguerra.  Così, più o meno, sarà apparsa Esanatoglia alla piccola Angela che con la sua famiglia alloggerà a “casa Cardona”, di cui si vede il tetto in basso a destra.

 

Esanatoglia sembra a tutti la ‘terra promessa’, la fine di ogni pena. Mia madre piange tra le braccia di suo fratello, che è mio zio; mio padre tra le braccia di Maria, che è la moglie di Zeno, quindi mia zia. Zeno è rosso di capelli, non l’avevo ancora visto un uomo rosso di capelli; gli occhi sono verdi, come quelli di mia madre. C’è anche una ragazzina, avrà forse 10 anni; mi domanda come mi chiamo. “Angela” le dico. Lei urla: “Anch’io! Ma mi chiamano Angelinella”.

Piangono tutti; io, adesso che potrei farlo, non lo faccio. Abbraccio mia cugina e rido, rido, rido fino alle lacrime.

Il sindaco di Esanatoglia ci assegna una casa che si trova all’inizio del paese e alla fine di via Matelica, quella che abbiamo percorso a piedi.  Adesso siamo qui, è una bella casa a piano terra, c’è spazio per tutti; dietro c’è un giardino che dà sulla campagna. In cucina c’è una grande cassapanca, che qui chiamano ‘mattera’, piena di farina bianca. Mia madre fa quasi sempre la pasta fresca con le uova; arrotola la sfoglia per fare i tagliolini. La taglia così in fretta che ho paura che si ferisca le dita; non posso guardare, mi giro di spalle.

Mangiamo anche la polenta; si cuoce in un tegame che chiamano paiolo, appeso sul camino: si gira la farina, che è gialla, finché si rapprende.  Poi mia madre la stende direttamente sul tavolo di marmo, sopra ci mette il sugo e le salsicce, distribuite in corrispondenza dei nostri posti; l’ultima è al centro, la mangerà chi finisce prima.

Stiamo bene, c’è silenzio, pace.

Sono arrivati i partigiani; si sono insediati nella caserma dei Carabinieri. In questa caserma ci sono solo il Comandante e due Carabinieri semplici; quindi, c’è posto per loro che sono una diecina. Mia madre mi spiega che i partigiani sono uomini, donne e ragazzi che fanno la Resistenza, cioè combattono i tedeschi che non se ne vogliono andare dall’Italia e da Esanatoglia. Sono buoni i partigiani, i tedeschi no: uccidono, rubano, pretendono, sono aggressivi, crudeli; parlano una lingua incomprensibile, dura.

Questa sera Zeno è venuto a dirci che i partigiani vorrebbero un po’ di musica nella trattoria del paese; ci sarebbe anche un chitarrista, un dilettante molto bravo. Zeno ci spiega che non si può rifiutare, i partigiani fanno una vita molto dura in montagna per difenderci e ogni tanto hanno bisogno di un po’ di svago.

Mio padre accetta d’incontrare Felice, il chitarrista; verrà a casa nostra, nel pomeriggio, per fare un po’ di affiatamento e per imparare brani del repertorio napoletano, visto che lui è marchigiano.  Vanno a suonare tutte le sere finché i partigiani restano.”

 

La allora giovanissima età di Angela e il tanto tempo ormai trascorso, possono spiegare il travisamento di alcuni fatti che invece, ormai è noto, si svolsero diversamente da come vengono ricordati e raccontati nel libro.  Ci può stare.  Sappiamo che Felice Pettirossi (in realtà Pettorossi, così almeno lui stesso si firmava) non cadde per mano tedesca ma rimase vittima di quel tanto discusso e altrettanto discutibile episodio in cui, insieme a lui, furono uccisi anche Francesco Lacchè e Oscar Luciani ad opera di partigiani slavi.  Ci sarà occasione di parlarne.

Vale la pena sottolineare che la presenza della famiglia Pagano – Dialuce nella Esanatoglia del ’43 è riportata anche da Balilla Bolognesi nel suo “Diari di un deportato” dove viene accostata proprio a Pettirossi che abitava con la sorella Olga, e con la di lui amante (di cui Balilla non ricordava più il nome ma aveva bene impresso nella memoria che si trattava di “una bella donna napoletana”) “in due locali sopra al Caffè di Venanza e Gigetto“, mentre, prosegue sempre Balilla, “Pagano (non ricordo il nome), sua moglie Rosetta Dialuce (sorella di Zeno Dialuce, nativa di Esanatoglia) e sposata a Napoli, da dove erano sfollati; avevano quattro o cinque figli, tutti in tenera età; famiglia numerosa, in condizioni di estrema povertà, abitavano nella casa che si trova sopra la Pizzeria Marisa e Anna, casa che allora era in pessime condizioni. Pagano era un abilissimo suonatore di mandolino.“.   Sempre nel segno di Pagano e Pettirossi, nei suoi diari Balilla ci fa rivivere quello che potremmo definire lo strano Natale del ’43.  Nonostante il buio dei tempi, o forse proprio per questo, venne organizzato in teatro un Recital musicale “a favore delle famiglie di sfollati più bisognose (Pagano, Pettirossi e altre famiglie). […]  Il Teatro era pieno, nonostante le tristezze della guerra, ma è che da  molto tempo non c’era stato più uno spettacolo a Esanatoglia.“.   Si incontrarono per l’occasione la vena musicale tipica dei Bolognesi, incarnata in quel caso dallo stesso Balilla e da sua sorella Maria, con quanto di meglio disponesse il povero Pettirossi, ovvero la sua chitarra e la sua amante che bella aveva anche la voce, insieme alla verve del mandolino napoletano di Pagano.  A ciò si unirono altre voci di cui si è perso il ricordo.  Un tocco di classicità lo apportò Oreste Dragoni, lu Professore Oreste, che con violoncello e pianoforte “eseguì brani di musica da camera e leggera“.  Natale del ’43.  Una festa sulle macerie fisiche e morali della guerra.  Si pensava forse che il peggio fosse passato.  Invece.

Prosegue il racconto di Angela e, nonostante le imprecisioni, ci fa immergere nella concitazione di un periodo di cui tanto si è parlato e su cui ciclicamente si torna:

” Corre voce che stanno arrivando i tedeschi, bisogna sloggiare; i partigiani fanno in fretta i bagagli e fuggono verso la montagna. Zeno dice che in paese c’è una spia che riferisce ai tedeschi tutto quello che avviene. Mio padre ha paura e anche mia madre: i tedeschi potrebbero vendicarsi… e lo fanno. Prendono Felice e lo fucilano; cercano mio padre, tutti gli uomini fino a 60 anni e tutti i ragazzi da 15 anni in su per deportarli in Germania.

Sentiamo bussare forte al portone di casa nostra; mio padre corre a infilarsi una giacca, mio fratello un pullover. Mia madre sfonda con la forza della disperazione la grata della finestrella che dà nella campagna, mio padre e mio fratello scavalcano e fuggono nel buio; lei chiude i vetri della finestra, si ricompone e chiede: “Chi è?”.  Risponde una voce tedesca che intima di aprire; mia madre apre, entrano un ufficiale tedesco e due soldati armati di mitra. Cercano gli uomini, mia madre sorride e li invita a guardare in casa.  I tedeschi, che sono diffidenti, spianano le armi e ispezionano le stanze; l’ufficiale guarda mia madre e ognuna di noi bambine, con un ghigno dice qualcosa in tedesco, poi girano i tacchi e se ne vanno; mia madre gli risponde in marchigiano: “E va’ a morì ammazzado!” e chiude la porta. Che coraggio, mia madre!

Non abbiamo notizie di mio padre e mio fratello da mesi; mia madre è incinta, già si vede la pancia, che è gonfia. Lei dice che “sente” che sarà un fratellino. Ma come fa a sentire? Come fa a sapere se aspetta un maschio, se questo sta dentro la pancia? Forse ieri notte ha sciolto il suo ombelico, ha guardato dentro, ha visto il bambino e subito lo ha riavvolto perché il piccolo non prenda freddo. È l’unica cosa che mi viene in mente, non trovo altre spiegazioni: è un mistero. Lei non mi dice altro, io non chiedo nulla perché sono abituata a vederla così: questa è la sesta pancia gonfia che le vedo.

Questa sera Zeno viene a casa nostra per dirci che siamo in pericolo, che dobbiamo andarcene. I tedeschi cercano mio padre, non lo trovano e potrebbero rifarsi su di noi; pensano che si nasconda con i partigiani e cercano di attirarlo in paese servendosi di noi. Dobbiamo fuggire, ma dove? Mia madre prepara qualcosa. Trova una valigia e ci mette dentro pane, formaggio, salsiccia, pullover, copertine per la notte; saluta Zeno e stanotte partiamo per Matelica… a piedi. Lei avanti, noi dietro in fila, in silenzio; sembriamo una famiglia di ricci.

Non piango, ho paura per mia madre che con quella pancia rischia molto. Ho paura per me, odio i tedeschi. Perché non se ne vanno? Chi li ha fatti venire da noi e perché? All’alba a Matelica troviamo un camion; l’autista ci fa salire.

Dice che va verso Napoli che è stata liberata; non ci sono più i tedeschi, l’hanno liberata i napoletani – uomini, donne e ragazzi – in meno di una settimana.  Perché non l’hanno fatto prima?

Forse perché non avevano abbastanza soldi, armi o coraggio… forse aspettavano che gli americani dicessero: “Cominciate, poi arriviamo noi”… non so, non la capisco questa guerra…

Mi ritrovo di nuovo sulla strada di Matelica, al buio di nuovo, senza mio padre che chissà dove sta, a piedi e non posso nemmeno piangere.

A Camerino ci fermiamo nei pressi di un convento, perché mia madre dice che sta per nascere il bambino e lei deve andare in ospedale perché lo deve aiutare. Ritorna dopo una settimana con il bambino nuovo, che si chiamerà come suo padre, cioè mio nonno che non ho mai conosciuto.”  […]

Rosetta lascia così, di nuovo, il suo paese natale, che le ha concesso un provvisorio ma confortevole asilo.   Se ne torna a Napoli, con un figlio in più, lo ha chiamato Basilio, ha “rélléatu” suo padre.  Lascia Esanatoglia anche Angela con un ricordo che, come abbiamo visto, le resterà impresso per sempre e che consegna, in tempi di bilancio esistenziale, al suo “Diario ritrovato” in cui, dopo la parentesi esanatogliese prosegue nel ripercorre la vita che l’avrebbe attesa nella Napoli dell’immediato dopoguerra.

 

La vita, dopo…

Per sbarcare il lunario e garantire la sopravvivenza della sua famiglia, ormai sciolta la sua Compagnia Teatrale, Guglielmo Pagano  organizza un gruppo di “posteggia“, una di quelle formazioni di musicisti ambulanti che suonavano nei ristoranti napoletani.  Sono in quattro: una chitarra, un violino, il suo mandolino e… proprio lei, la piccola Angela (ma, sembra, anche la sorella Marina), che a 8 anni, forte della sua voce ancora acerba ma ben impostata, si esibisce nei vari locali frequentati principalmente da soldati americani.  Le capita anche di ricevere i complimenti per la sua bella voce, da un occasionale cliente che risponde al nome di Beniamino Gigli.  Glielo dicono, ma lei non sa chi sia. 

 

Nell’immagine qui sopra, l’arbitraria ricostruzione operata dalla Intelligenza Artificiale con cui ho provato a dilettarmi, abbozza l’ambientazione delle prime esibizioni di Angela accompagnata dal mandolino del padre: “Non so se provo piacere ad esibirmi, lo faccio e basta.  Sicuramente sono felice per l’abito che indosso: un bellissimo vestito di organza bianca, lungo fino al ginocchio…

Ma quel tipo di lavoro si regge su una generosità non sempre scontata, ogni possibile talento trova il suo esito nel passare tra i tavoli con il berretto in mano; non si rimedia così alla miseria.    Così Angela insieme alla sorella Marina, vengono inserite in quella straordinaria esperienza di solidarietà sociale che prese il nome de “I Treni della Felicità” e di cui negli ultimi anni si è tornato a parlare grazie a diversi libri e soprattutto allo splendido romanzo di Viola Ardone “Il treno dei bambini“.  Si trattava di soggiorni per bambini poveri del Centro e Sud Italia presso famiglie dell’Emilia-Romagna, Toscana e Marche disposte ad accoglierli. 

 

 

Dopo la guerra, l’Italia era un paese devastato. Soprattutto il Sud, la cui popolazione infantile versava in condizioni gravissime. Da un’idea di Teresa Noce, dirigente comunista e partigiana battagliera, si sviluppò questa iniziativa per cui,  grazie al coordinamento del Partito Comunista e delle donne dell’Udi, oltre settantamila bambine e bambini provenienti da ogni parte della penisola furono portati in «Alta Italia», principalmente Emilia Romagna, Toscana e Marche e salvati dalla miseria della guerra. Soggiorni presso famiglie che si erano offerte di ospitare gratuitamente i bambini per periodi che durarono da alcuni mesi fino a qualche anno. 

 

Un ‘treno della felicità’ in partenza da Napoli

 

Una esperienza che lascerà ad Angela, ospite di una famiglia a Coviolo di Reggio Emilia, un ricordo indelebile, “Trascorro un periodo meraviglioso, un vero regalo della vita.  Mangio pasti regolari, vedo per la prima volta un fiume e soprattutto imparo ad andare in bicicletta: una vacanza che non ho mai fatto e mai più farò.”.

Al rientro da questa esperienza, trova l’ultimo nato, Gianfranco, l’ottavo.  Una bocca in più ad appesantire la situazione economica della famiglia. 

 

La scoperta del teatro

Lasciata presto la scuola, Angela trova un posto da commessa in un negozio di guanti.  Segue un corso per imparare l’inglese e si destreggia con maestria nel suo impiego.   Qualche anno di questa vita finché, su sollecitazione di una cliente che apprezzava particolarmente il suo carattere estroverso, si presenta per un provino al Teatro Ferdinando al cospetto del grande Eduardo De Filippo.  Siamo nel 1958.  Con un piccolo ruolo in una commedia, al cui debutto sbaglia pure la sua unica battuta, inizia così una carriera che la porterà ad essere una apprezzatissima presenza sulla scena teatrale nazionale.

Con la Compagnia di Eduardo inizia a calcare i palcoscenici di tutta Italia; una straordinaria opportunità per una giovane attrice.

 

Angela Pagano con Eduardo De Filippo in “Filomena Marturano”

 

E’ comunque una vita dura, fatta di continui spostamenti, di pensioncine senza stelle e pasti più che frugali, vissuta comunque con spirito comunitario e densa di episodi che il diario raccoglie e colloca accanto ai nomi di tanti protagonisti della scena teatrale: Visconti, Franco Parenti, Patroni Griffi, Tino Buazzelli ecc. (aggiungere)

Nel turbinio di questa vita, Angela si ritaglia anche il tempo di mettere al mondo una figlia.

Lo sviluppo del suo percorso artistico la induce a provare nuove esperienze, staccandosi da Eduardo per entrare a far parte di una delle principali compagini teatrali italiane del tempo, la Compagnia di Franca Valeri e Vittorio Caprioli.

Viene anche scritturata da Patroni Griffi per la versione italiana di Hair.  Sarà la madre scatenata e ribelle che protesta contro la guerra del Vietnam. 

 

 

Sul set di Hair fa un particolare incontro: “C’è, tra gli altri, un ragazzo che si chiama Renato Zero; canta molto bene e si muove in scena con grande disinvoltura.  Ha i capelli lunghi, neri come i miei: io ho la frangetta, ieri anche lui è arrivato con la frangetta; un giorno io me li sono fatti ricci, e poi lui lo stesso.”   Chissà, viene da chiedersi, se avranno avuto modo di confrontarsi, lei, “la fija de Rosetta” e Renato Fiacchini, “lu nipote de don Pietro“, sui comuni legami con Esanatoglia…).

Altro caposaldo della sua carriera è l’incontro con il regista Armando Pugliese che le propone un ruolo primario in uno spettacolo destinato a fare epoca: il Masaniello di Elvio Porta con le musiche di De Simone.    Per chi, come me, a quei tempi era immerso nel teatro come oggetto di studio e di passione, rappresentò un evento, un vero punto di svolta per l’innovativo allestimento in cui Pugliese metteva a frutto quanto già sperimentato da Luca Ronconi nel suo celeberrimo Orlando Furioso.  Vidi lo spettacolo ai Giardini Margherita di Bologna il 18 dicembre 1976 (certe date si appuntano e campeggiano nelle agende personali).  Non sapevo allora che protagonista accanto a Mariano Rigillo, ad esprimere tutta la sua bravura nel ruolo di Bernardina, moglie di Masaniello, fosse una mia mezza compaesana, “la nipote de Zeno“.   L’avessi saputo…

 

Angela Pagano nel ruolo di Bernardina

 

Copertina del LP con le musiche dello spettacolo

 

Da allora in poi, tantissime altre le sue esperienze in campo teatrale e anche qualche partecipazione a film.  Per completezza di informazione si può leggere il suo libro e ricercare in rete. 

Tornerà, si può dire inevitabilmente, alla corte di Eduardo, da dove era partita, tramite Luca De Filippo che per il debutto della sua compagnia si avvalse proprio della regia del padre; Angela ancora oggi vanta, custodendolo come una reliquia, un bigliettino vergato a mano dallo stesso Eduardo in cui il Maestro (o meglio “o Direttore” come amava farsi chiamare) la accoglie con un “Ben tornata in casa tua“.

 

Biglietto autografo di Eduardo De Filippo a Angela Pagano (1981)

 

Angela Pagano

E’ lunghissimo l’elenco della sua attività teatrale che ancora oggi la vede calcare palcoscenici e frequentare set cinematografici, capace di infondere carica scenica persino alla presentazione del suo libro.

 

 

Marina Pagano

Che ambiente e ereditarietà nella famiglia Pagano – Dialuce volgessero verso le arti della musica e del teatro, ce lo conferma anche la vita di un’altra sorella di Angela, Marina. 

Vite per molti versi parallele, ma quella di Marina purtroppo breve, perché fermatasi prima che potesse affermarsi definitivamente come talentuosa attrice e cantante folk.

 

 

Non disponiamo della stessa ricchezza di materiali per delineare il suo percorso umano e artistico.  Anzi, per la verità ci stupisce un po’ che nelle pagine del libro di Angela non sia menzionata in alcun modo la sorella.  In realtà in quelle pagine non trovano posto nemmeno i suoi figli, né i suoi amori.   Può sembrare strano, ma questo è.   Ci affidiamo perciò a un ritratto reperito in rete che si potrà leggere a questo link:

https://www.ilmondodisuk.com/le-indimenticabilimarina-pagano-struggente-voce-partenopea-dal-cuore-universale/

Qui ci piace rivedere la sua partecipazione a Canzonissima del 1974:

 

 

E qui nel travolgente ruolo della zia di Massimo Troisi in Ricomincio da tre (1981).

 

Belle e interessanti presenze le sorelle Pagano, “le fijie de Rosetta“, un vero piacere poter condividere con loro queste comuni origini.  Le sentiamo parte di noi, esanatogliesi di origine e…, perché no, magari di elezione.

4 Replies to “Due eccellenti artiste, esanatogliesi… a metà”

  1. Claudio Taccucci ha detto:

    Sempre interessanti queste ricostruzioni di vite passate , a volte emozionanti , come la generosità dei paesani verso i poveri sfollati della guerra che cercarono rifugio nella altrettanto povera Esanatoglia.
    Ringrazio Pino per il prezioso lavoro di ricerca e per il dono che ce ne fa.

  2. PinoBart ha detto:

    Grazie Claudio, il tuo apprezzamento è sempre gradito.

  3. M. Cristina Ceolotti ha detto:

    Interessantissimo racconto !!! Ho conosciuto Zeno e sua moglie quando ero una bambina e , proprio la moglie , raccontò a mia madre e me che ero insieme a lei , di queste ragazze che erano a Napoli ed erano diventate due brave artiste !!!!

    • PinoBart ha detto:

      Anche a me è capitato più volte di ascoltare i racconti di Maria e anche della figlia Angela. In famiglia erano giustamente molto orgogliosi dei loro successi. Grazie Cristina

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