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La madonna della Pace, Milanuzzi e i “cicli”

Càpita, a volte, che” quando qualcuno si avvicina a un nuovo campo di interessi, appassionandosene, scopra qualcosa che stimola la frenesia e innesca quell’ansia di protagonismo che cova, più o meno, nell’intimo di ciascuno di noi.  Le passioni, tutte, meglio controllarle. Almeno finché si può.

Ma un conto è che il nuovo interesse venga considerato e vissuto come una scoperta per sé stessi, altra cosa è ritenere che rappresenti invece una scoperta esclusiva, una novità assoluta, una cosa prima d’allora ignorata da tutti. Un atteggiamento che, se non ha solidi sostegni, può risultare un filino presuntuoso, ma soprattutto infruttuoso.

Vale un po’ per tutto, quindi anche per quanto riguarda l’interesse e la passione per il territorio in cui si vive.  Proprio in questo àmbito vorrei segnalare un fenomeno su cui poter riflettere.

Con uno sguardo a ritroso, agevolato dall’età e da quel po’ di conoscenza del ‘settore’, potrei considerarlo quasi un fenomeno ciclico, legato, appunto, a cicli politico-amministrativi, che sono quindi anche culturali, in cui vi prendono parte questioni relative a schieramenti e a consorterie,  e vi gravano per di più anche aspetti generazionali e… infine anche casuali (dipende sempre anche da chi si incontra).   Nuovi ‘attori’ (intesi ovviamente come persone che compiono ‘atti’), ‘stranieri’ ma anche ‘indigeni’ , si affacciano ciclicamente sulla scena pubblica (oggi amplificata oltremodo dai social , anche se qui da noi il fenomeno è ancora a livello casereccio), ‘folgorati’ (a volte tardivamente quando si tratta di indigeni) dalle bellezze del territorio, dalla sua storia, dalla sua cultura; in questo ‘frutto della passione’ vi si immergono, quasi appropriandosene e cominciano a ‘raccontarlo’ in un modo quasi sempre ‘speciale’.

Perché, forse sulle ali dell’entusiasmo (una sorta di ‘sindrome di Sthendal’ che a volte induce all’amnesia e stimola l’egotismo), il racconto spesso sembra quello di una scoperta assoluta: come se tutto ciò che passa loro davanti sia una totale assoluta novità, quasi come se nessuno prima di loro avesse mai conosciuto ciò di cui si parla, promosso iniziative, apprezzato le opere d’arte presenti, tutelato e valorizzato il territorio.    Ora, che si accresca il numero di chi si avvicina a questi interessi e che arrivino nuovi sguardi e nuove sapienze è certamente fenomeno positivo e può costituire un sicuro arricchimento per tutti e soprattutto per il territorio e i suoi beni.  Ma se questo avviene con l’atteggiamento di chi sembra voler accampare quasi un diritto di primogenitura, ignorando o comunque trascurando quanto fatto in passato, il risultato può essere veramente risibile e pasticciato.  Ma è così: qui, probabilmente come altrove, è capitato, sta capitando, e forse capiterà ancora. È , appunto, ciclico, ma non per questo da assecondare.  

Per illustrare quello che ritengo sia il ciclo attuale qui da noi, così come si sta manifestando da qualche anno a questa parte, butto lì un esempio (ma la lista potrebbe essere lunga….) che riguarda una recente manifestazione; ne parlo non perché sia la più eclatante, ma giusto perché è l’ultima in ordine di tempo; mi servirà solo per introdurre una seconda questione, quella  che ritengo ancor più rilevante e che mi ha indotto a rubare un po’ del prezioso spazio di questo giornalino.

Nel numero 4/2018 su queste pagine veniva riportata la cronaca di un racconto, ad opera di Fiorella Paino, sulla tela attualmente ospitata in Municipio e denominata, ormai per consuetudine, “La Madonna della Pace”.  Ecco, quel racconto, se dobbiamo credere a come è stato riportato, contiene delle inesattezze non irrilevanti se ci si propone di fare un lavoro da storici (ma anche da cronisti). Ebbi modo di conoscere e apprezzare  Fiorella Paino quando, nel gennaio del 2010,  relazionò al Convegno organizzato dalla Associazione ‘Le Cento Città’ in cui illustrò il ciclo pittorico dei “Cavalieri” della attuale Sala Consiliare (in quell’occasione io ebbi l’onore di relazionare sulla figura e l’opera di Carlo Milanuzzi, di cui poi si parlerà), e penso che il racconto sulla tela sarà stato certamente suggestivo e articolato com’è nel suo stile e nelle sue capacità (seppure, anche sulla scorta del giudizio di altri studiosi che hanno visto la tela, si potrebbe obiettare sulla centralità data alla “cacciata dei diavoli da Arezzo” al punto da ritenerlo degno di assurgere a titolo dell’opera: ma queste sono libere interpretazioni, e non è questo il punto).

Ma, stando al resoconto dell’articolo, il racconto contiene inesattezze e trascura dati e notizie non irrilevanti e che, per quanto articolato e suggestivo, lo rendono in parte arbitrario e comunque incompleto.   Innanzitutto, nel recupero della tela non c’entrano nulla il sisma del ’97 e i successivi lavori di restauro della Chiesa.   Sarebbe bastato leggere il libro di Claudio Mazzalupi “La terra di Santa Natolia”, edito nel 1996, dove in appendice  Bittarelli  parla già del restauro della tela.   Ancora più perentoria e falsa l’affermazione, contenuta nell’articolo, che della tela stessa “Fino a non molti anni fa nessuno sapeva alcunché  […]  non si era avuto modo né occasione di vedere cosa vi fosse dipinto”. 

Non è assolutamente così.

 

Nella foto qui sopra, scattata da Don Stefano Pedica nel maggio 1972 (come stampigliato nel retro della foto stessa) non mi si vede, ma reggo da dietro la tela (all’epoca ancora montata su telaio) nel cortile ‘de le Moniche’.   Lo stesso Don Stefano ne scrisse poi  un articolo (“Esanatoglia: storia di un dipinto”) pubblicato su L’Appennino Camerte  del 10 marzo 1979 (articolo peraltro citato sempre nel libro di Mazzalupi, che a questo punto, dato che è l’unico  compendio di storia locale completo, sarebbe auspicabile venisse letto e magari anche con attenzione).  Nell’articolo  non si parlava ancora dei “diavoli di Arezzo” semplicemente perché i diavoli non c’erano (non so se questo la Paino l’abbia raccontato o se chi le ha fornito notizie l’abbia informata), perché sono venuti alla luce con il restauro del ‘95 insieme a molti altri elementi che permettono di parlare non di una semplice ridipintura ma quasi di due opere sostanzialmente diverse o comunque di un opera che ci racconta due epoche diverse. Penso che questa sovrapposizione sia un elemento estremamente importante e racconti da sé più di tante altre congetture.  È questa sorta di diacronìa, di evoluzione storica, forse l’aspetto fondamentale è più interessante della tela.  Inoltre, infine, sempre per quanto riguarda la conoscenza sull’opera, se volessimo risalire ancora un po’ indietro nel tempo troveremmo il dipinto già  descritto nell’elenco delle opere d’arte presenti nel nostro territorio comunale che nel 1909 fu redatto dall’Arciprete matelicese Sennen Bigiaretti, nelle sue funzioni di Regio Ispettore Monumenti e Scavi, che lo attribuì a “pittore aretino”.

Della storia (quella vera…) della conservazione di questa tela (per la quale potrei rivendicare qualche merito), del suo restauro (anche qui eseguito su mia proposta, grazie a una donazione di Maria Paola Paris allora Consigliere Comunale), dell’interesse di studiosi come Alberto Bufali e Paolo Pinti, mi riservo di raccontare prossimamente in un blog che è in fase di realizzazione e che cercherà di raccontare anche di altro.

Questo per dire che…c’era vita anche prima di oggi (!) e che, se non ci si conforma a questo assunto, si perdono ottime occasioni e si rischiano inciampi come questi (intendiamoci… peccati veniali…) e, ancor di più,  come quello che vado a dire (molto meno veniale). 

Da qualche anno è emerso dall’oblìo (ma anche qui non è proprio così…e lo vedremo) un antico organo a canne.   Il restauro dell’organo della Pieve, che si riteneva settecentesco e di non particolare valore, eseguito da Michel Formentelli contestualmente al restauro della Chiesa (in questo caso sì, con i fondi del Sisma ’97), che ho avuto la fortuna di poter seguire dal vivo, ci ha invece restituito inaspettatamente un pregevole organo rinascimentale: un Malamini o Malamino (dal nome dell’organaro che lo costruì); raro, perché attribuibili allo stesso costruttore sembra ne siano rimasti non più di tre in Italia.

Bene. Questo ha stimolato qualcuno (venutone casualmente, e con discreto ritardo, a conoscenza…) a organizzare un “Festival Organistico d’Esino” (il nome è veramente un colpo di genio, un autentica esplosione di originalità, anche se non avrei disprezzato un riferimento a “li fóssi de Mútula” dove il suono d’organo si propaga più libero) affidato alla direzione di Luca Migliorelli.   Non so se qualcuno abbia avuto modo di “raccontare” la storia di quell’organo, di come e quando è stato costruito, di dove stava, di quando e perché è stato trasferito alla Pieve e, soprattutto, di chi lo abbia potuto suonare in passato…  

Chissà se in tutto ciò è mai saltato fuori il nome di Carlo Milanuzzi ?

 All’epoca della “Prima edizione” chiesi ragione al Sindaco sul perché fosse partita una iniziativa slegata dal nome del nostro illustre (?) musicista su cui da anni si stava lavorando.  Ammise la svista e la attribuì alla fretta di dover organizzare in tempi brevi un’idea nata così… in maniera estemporanea, alla scarsa esperienza degli organizzatori (che, come spesso capita, sono un intrico inestricabile tra le varie associazioni locali per cui non si sa mai con precisione chi organizza cosa…), non ricordo se furono chiamate in causa anche le condizioni meteo avverse.  Ma… “ripareremo, ne riparleremo, cambieremo, il ‘progetto Milanuzzi’ va avanti….”.  Figuriamoci.   

Ora, non io, ma le possibilità offerte dal prestigio del musicista locale, stanno ancora aspettando.   Si è arrivati alla terza edizione e si va per la quarta di un Festival nel quale di Milanuzzi non v’è nemmeno l’ombra, non solo nell’intestazione, ma neppure, mi risulta, nella musica eseguita. (!!!)

E’ come se, fatte le debite proporzioni, a Pesaro, appassionati di lirica e orgogliosi del loro teatro ma ancor di più del loro fiume, organizzassero invece del ‘Rossini Opera Festival’, il ‘Foglia Opera Festival’ mettendo in scena opere di Bellini, Donizetti, Verdi e financo di Puccini, ma non di quel depressone di Gioacchino che, sì era pesarese…ma se n’era andato a morire altrove.   Oppure, per rimanere più vicini, a Matelica, per esprimere la loro vocazione letteraria avessero ideato il ‘Premio letterario del Rio Imbrigno’ con letture e conferenze su una pletora di scrittori novecenteschi ignorando completamente il loro concittadino Libero Bigiaretti.

Ma è mai possibile che in una manifestazione musicale nata intorno ad un organo su cui, verosimilmente (si ricordi che era un frate agostiniano e Santa Maria, dove fu realizzato quell’organo, era la Chiesa del convento agostiniano) si è formato un musicista – organista – compositore (nonché poeta e letterato) come il nostro, tra i più interessanti della prima metà del ‘600, questi venga completamente ignorato?   Anche ad onta di quanto in passato il Comune ha fatto (o meglio, ha provato a fare) per riscoprire e valorizzare la sua figura e la sua opera?

Mi chiedo come si faccia a non capire che questa manifestazione sarebbe invece dovuta nascere proprio intorno alla sua figura e alla sua opera, nel suo nome e nel suo segno.  È  ignoranza? È indolenza? Che altro?  È comunque ridicolo e imperdonabile, e non fa certo onore a chi la organizza.  Ma così va il ciclo….

Unica consolazione, è che la musica di Milanuzzi, a dispetto di tutto ciò, è tornata comunque a rivivere attraverso il suono di quell’organo grazie ad uno splendido personaggio che il caso, favorito dalle capacità e sensibilità di Oriana Bottaccio, ha portato al cospetto del Malamini.   Una mattina di settembre del 2017, Jan Delhaas (Giovanni Della Lepre, se fosse stato italiano, come lui stesso ha voluto sottolineare), ieratico ma simpatico musicista e teologo olandese, ha suonato e cantato (per me e Oriana, ma soprattutto per Milanuzzi e il ‘suo’ organo), su uno spartito milanuzziano che (pensate) aveva con sé.  

 

Una intensa emozione. Un atto simbolico.  Una rivalsa sulla storia.  Dopo oltre quattro secoli, il Malamini tornava a riprodurre musiche di Carlo Milanuzzi.  In solitudine quasi. Peccato (ma per chi non c’era).

Il resto, vedete un po’…. fate pure…, andate.

Sarà per il prossimo ciclo.

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